Aprilcoat - olio e acrilico su tela - ityart

Ai tavoli

L’uomo al microfono ha cappa
e coltello. Il colletto è
piegato, bianco-umido.

Ritto, declama ordini e menzogne.

Al tavolo, una donna ordina
una sfera e un calice di vino.

E il suo cappotto è un mondo
e il suo mondo è un castello di carte
e le carte scivolano via all’incedere del vento.

Un merlo appollaiato, fischia.
“Il merlo è un corvo.”

Il corvo multicolor,
si abbina al
lombrico dal colmo ventre.

Appollaiato, canta e mente.
“La scorsa notte ero un’anima
immortale.”

La scorsa notte era un
portone chiuso.

La scorsa notte, era.

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Dipinto: AprilCoat

Olio e acrilico su tela
4 x 80 x 60 cm
Avola,  2015

La deriva della forma

Alla deriva della forma

cumulonembi in lotta,

nell’ombra la lacrima rimbalza sul tuono

 né più né meno che gocce

Nell’ombra le tracce della richiesta

vorrài, non vorrò

sarai, non sarò

Intimidisce il segno della resurrezione

una forma tra le fiamme

il dolore dell’ombra arriva dalla macchia

chiedi a chi vorrà, non vorrò

I santi marchiano a fuoco

il dolore è lo stigma dell’onta

nel peccato, la cenere é l’ombra

Immagine: Inside, ityart

Come è la terra, così è il cielo

Come è la terra, così è il cielo
In fiamme
Nell’oro rosso del pianto

Come è la terra, così è il cielo
Un’aspirazione volatile
Un salto nel buio

Come è la terra, così è il cielo
Come un balzo, di casella in casella
E il rischio di…

Come è la terra, così è il cielo
Inciampare al bordo,
Distanti la pietra, il piede e il balzo

Come è la terra, così è il cielo
In mutamento, terribile e costante

Così è il cielo, come la terra
non ci appartiene.

Immagine: Il gioco del mondo

jazz night-acrilico su carta-ilary tiralongo

Passaggi in Jazz

Immagine: Jazz Night, acrilico su carta

L’inclemenza del tempo livella l’ansia del movimento.

Indica. L’indice indica.

A ritmo. Tum, tum, tum.

L’indice indica a ritmo.

La frenesia delle estremità, dei corpi.

Il calore cromatico, i freddi.

L’inclemenza del tempo livella l’ansia del movimento.

Un braccio alzato, una schiena prona, la chioma scossa.

musica e danza spazio off- bellarte-gramaglia-tiralongo

È il passaggio dalla stasi all’aspirazione.

Di movimento, di liberazione.

È una nota lunga. Una breve, sincopata.

L’inclemenza del tempo livella l’ansia del movimento.

La sincronia dei corpi, l’equilibrio del battito –

nel passaggio violento delle cromature, delle inspirazioni.

Sta. Nelle aspirazioni.

L’inclemenza del tempo livella l’ansia del movimento.

E il passaggio diviene ritmo, rito.

Unico battito a cui tendere.

 

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Immagini scattate in occasione dell’evento di Spazio OFF Musica e Danza (30/ 08/ 2020).

incendi-ityart-ilary tiralongo

Rosso e blu

Foto: “Fires”, acrilico su carta

 

La notte che non è notte, avanza.

Voci. Porte.

S’aprono e chiudono. Porte.

Silenzio. Chiudi le tende.

La notte che non è notte, avanza.

Urla. Porte.

S’aprono e chiudono. Porte.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

Il cielo non ti appartiene.

E ancora.

Il baluginare delle stelle. Non vedi.

E ancora.

Gli stormi passano lontani.

Gli stormi, i tramonti, le nuvole, il respiro.

E ancora.

Serri le grate.

E ancora.

Serri il pensiero.

Muori da vivo.

E ancora.

Vivi da morto.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

E ancora.

Il respiro che non è respiro, svanisce.


Notizie:

SiracusaNews
LiveUniCT

Paesaggio industriale, acrilico su carta

Flowing

Foto: “Landscape”, acrilico su carta.

Ogni individuo è un granello di sabbia, in sé quasi inconsistente, in sé perfettamente creato, in sé
finito. Ogni granello spera di avere una funzione, uno scopo capace di dare senso alla sua e ad altre
esistenze. A volte non è in grado di individuare tale senso, a volte si fa strada con gli scopi che
vengono a lui attribuiti dal contesto. A volte non si domanda se tali scopi abbiano un senso per lui o
nel quadro generale. A volte, invece, quella domanda viene posta e in tale remoto, fugace caso, il
dubbio apre i varchi e un flusso indistinto di pensieri e domande si insinua e rende instabile l’animo.
Ciò che viene chiamato benessere altro non è che una diga, un velo, in grado di appiattire le volontà
e i dubbi, in grado di prosciugare le energie del cambiamento. Una diga alta e colma di sangue,
costituita con i corpi di quanti da quel benessere sono esclusi. Chi monitora è consapevole, chi dirige
i lavori di costruzione, è consapevole. Chi subisce la diga è consapevole e chi subisce per poi
contribuire all’ulteriore innalzamento della diga, è doppiamente consapevole e responsabile. Ma tali
responsabilità non saranno mai poste innanzi un giudice e nessuna toga, mai, alzerà il martello per
proclamare sentenze di condanna.

Il mondo tutto subisce il gioco schiavizzante del benessere e la colpa che tutti noi, schiavi del
benessere, portiamo sulle spalle ci impedisce di reagire concretamente. Partecipiamo a raccolte fondi,
contribuiamo con donazioni di tempo o denaro, e in tal modo sentiamo alleggerire il carico. C’è la
fame nel mondo – ho dato un panino al clochard sotto casa. L’inquinamento devasta le foreste – ho
riciclato la plastica. Migliaia di persone perdono la propria dimora, bevono acqua contaminata e
muoiono di malattie curabili – non compro l’avocado e mi curo con l’omeopatia.
Rimedi utili e nobilissimi, ma è poco, troppo poco. È nulla.

Tutti i viventi, durante la loro esistenza, migrano e cambiano pelle. Crescono grazie agli spostamenti,
spostamenti registrati nella loro memoria genetica, abitudini di specie intere. Nei loro spostamenti,
molti luoghi vengono attraversati e più di una è la loro casa. Zone vissute anche da altre specie, in
comune con la fauna e la flora più diversa. Vivono insieme gli spazi del globo senza opporsi gli uni
a gli altri per la sola ragione opponente. Per il possesso del fazzoletto su cui sventolare il proprio
vessillo.

Abbiamo l’errata convinzione che la terra, una volta abitata, diventi proprietà esclusiva. Ma la terra,
è il globo intero e del globo intero tutti siamo figli e custodi. Mio può essere il frutto del lavoro che
da quel terreno ottengo, ma non la terra in sé. Essa appartiene a tutti i suoi abitanti e non c’è ragione
per ostacolare le legittime richieste di ospitalità provenienti dai nostri fratelli. Qualcuno potrà parlare
della proprietà come di una delle più grandi conquiste dell’uomo moderno, addurre le normative che
la difendono, le filosofie che la vantano. Qualcun altro considererà la questione del contratto sociale
tra stato e cittadini, l’appartenenza alla madre patria, l’orgoglio nazionale, la necessità di marcare il
territorio delimitando i confini tra marcatori e estromessi.

E molti, di certo, accetteranno e plauderanno a tali egregi sofisti, ritenendo lecito e giusto appropriarsi
di un luogo naturale definendolo proprio. Comprensibile è la ragione, sentirsi sicuri, fregiarsi della
spilla reale con scettro e coroncina di feltro. Complimenti a tutti, stringiamo le mani e scriviamo due
righe con timbro e firma così l’ufficialità del pluri-spillato mi renderà certo della buona riuscita della
transazione.

E intanto dietro la porta segue un rivolo, piccolo fiume, fiumiciattolo. Di teste, di braccia, di gambe,
luride, pezzenti. Che prima avevano una casa ed ora hanno nulla, i loro titoli stracciati, le loro
speranze infrante, i loro bisogni primari negati. E noi, dal castello di carte li osserviamo, li temiamo,
li ignoriamo. Perché in fondo siamo consapevoli che ammettendo la loro esistenza, le loro effettive
perdite, neanche il nostro pezzetto di carta bollata, timbrata e firmata, ci darà la sicurezza che domani,
quel che è capitato loro non accada anche a noi. Il fluire delle vite è un’imprevedibile ruota, cieca
dicono, ma karmicamente orientata, credo. Quel che accade ai nostri fratelli, in paesi altri, toccherà
anche noi, che lo vogliamo o no e sarà giusto. Dobbiamo tutti rispondere delle nefandezze e degli
orrori che loro stanno vivendo, orrori in gran parte creati per mantenere lo status quo di pochi.
Ingiustizie perpetrate ai danni di innocenti da criminali che riempiono l’aria di menzogne, mentre le
orecchie e le menti di chi ascolta, pur consapevoli delle assurdità udite, assorbono e accettano,
giustificano.

Perché noi dovremmo essere meglio di loro? Perché noi dovremmo godere di tali ingiusti e
ingiustificati privilegi? È solo questione di fortuna. Una fortuna che è anche maledizione, se
riflettiamo bene. Sappiamo di vivere in un castello di carta, un castello lucente, come le scenografie
di qualche musical di Broadway. Ma come quelle scenografie, si tratta solo di finzione. Illusioni. Di
stabilità, di certezze. Ci illudiamo che la vita che ci viene prospettata sia ciò a cui dobbiamo tendere.
Ci illudiamo che massima aspirazione è avere una dimora piena di comfort, acquisire un posto stabile,
procreare e inserirsi nel circuito del lavoro secondo condizioni imposte, che non tengono conto delle
reali necessità degli individui e del lavoro stesso.

Siamo ingranaggi di un meccanismo contorto che sta contorcendosi su se stesso, le cui menzogne
sono cavi metallici che stritolano e annebbiano. Siamo tanti Alex con occhi spalancati, nauseati,
isterici ma sottomessi all’imperio generale della mediocrità, dell’ipocrisia.

Ognuno di questi elementi che tengono in piedi la bislacca farsa del quotidiano è ancorato ad una
gravosa e vergognosa mancanza, l’assenza di empatia. L’essere umano concepisce se stesso come
animale superiore per via del libero arbitrio, della capacità di comprendere, di ragionare, di sentire.
Oggi l’umano decide, sceglie, adopera la logica indirizzando il suo volere verso il pacco A o il pacco
B. Lo fa considerando l’utile, l’appropriato, il politically correct. Molto spesso, però, manca della
capacità di entrare in relazione con i sentimenti propri e altrui.

C’è tanta solitudine, dicono, in un mondo così connesso e pieno di “amici”, le depressioni e la
solitudine sono tra i mali che colpiscono l’uomo occidentale. Una community talmente ampia e
progredita ha perso la capacità di assistere se stessa e accudire i propri membri. Nel paese da cui
provengo, anni fa, si vedeva una forte coesione all’interno dei “quatteri”. Nel quartiere, a dispetto
delle scaramucce quotidiane, se un individuo era in difficoltà, tutti gli altri correvano ad aiutarlo. E
questo genere di realtà era presente in ogni angolo del paese. Adesso, rispetto all’ora, non c’è lo stesso
rapporto, il paese è cresciuto, esistono nuovi quartieri che hanno perso la caratteristica di “quattere”.
Qualcuno resiste ancora, ma sono pochi, molto pochi. Proiettando questa situazione su scala
nazionale, o mondiale, notiamo egual sorte. La coesione si trova all’interno di piccole comunità,
molto spesso rurali, altrettanto frequentemente in difficoltà. Ove c’è benessere, ove c’è stabilità
imposta i casi di empatia retificata sono in netta minoranza.

Possiamo prendere in considerazione statistiche e eminenti studi, possiamo citare esperti d’ogni
tempo e luogo per suffragare quanto qui riportato o contrastarlo. Possiamo continuare a mentire e
mentirci ma guardiamoci intorno, ascoltiamo le storie di chi ci circonda e proviamo a indossare
quell’abito, posando per un po’ le nostre maschere, indossando le maschere altrui. Proviamo a
guardare dentro il loro vuoto, il nostro vuoto e proviamo a chiederci… perché?!

Solo in cartolina!

Attivarsi è importante. Attivarsi per qualcosa di giusto, per qualcosa in cui si crede è sintomo di rispetto.

Verso un ideale, verso se stessi, verso gli individui e gli esseri tutti. La cittadinanza attiva è quel sintomo

che permette la guarigione dall’insensibilità, dall’indolenza, dagli egoismi.

Un’iniziativa interessante, volta a contrastare il clima di aggressività mirata, che certi discorsi tendono a favorire,

è quella creata dai grafici italiani di “Solo in cartolina”.

Sul sito ufficiale leggiamo la mission:

“Stiamo chiedendo ai creativi di tutta Italia di inviarci i loro Saluti e Baci dalle località di mare che preferiscono, mostrando quello che accade davanti ai nostri occhi ogni estate, ma che scegliamo di non vedere.

Solo in cartolina è una campagna di denuncia contro le morti in mare, che sostiene tutti coloro che ogni giorno salvano le vite dei migranti al largo delle nostre coste.

Soccorrere chi rischia di morire in mare è una priorità e un dovere a prescindere dalle  diverse posizioni politiche sull’accoglienza. Ostacolare le operazioni di salvataggio è una violazione dei diritti umani che non può essere ignorata.”

Come molti altri, anch’io ho deciso di attivarmi e partecipare. Chiunque voglia aderire, può ancora farlo consultando la pagina dedicata del progetto.

Siate numerosi!

Di sciami e ronzii

In questi giorni torna sovente l’immagine di uno schermo incapace di trasmettere. Uno schermo luminoso che presenta solo puntini bianchi e puntini neri. Alternati. E rumore, tanto rumore. Badate bene, non un caotico mix di suoni ma un bzzzzz, simile al fastidioso ronzio di mosche, zanzare e simili.

A pensarci bene, quel ronzio, il loro ronzio, deriva dal movimento alare. Quindi, correggendo l’input iniziale, potremmo dire che sì c’è un rumore, che quel rumore è simile ad un ronzio e che quel ronzio è prodotto dal movimento di tanti esseri. Ecco, così facendo, la macchia vista nello schermo non è più una semplice accozzaglia di puntini bianchi e di puntini neri ma uno sciame. Uno sciame che muove verso l’osservatore producendo caotici ronzii.

Perché parlare di sciami e di ronzii, qualcuno potrà chiedersi. La risposta non risiede nell’entomologia. E neanche nello studio dei sogni. In cosa, allora? Forse nell’immaginario. Chiudete gli occhi, provate ad avvertire un brusio di sottofondo. Adesso, immaginate che quel brusio aumenti. Iniziate a preoccuparvi, ad aprire un po’ gli occhi e dalla fessura tra le palpebre scorgete la macchia. Aprite gli occhi, sgomenti, e la macchia è lì. Di fronte a voi, gigantesca e oscura con il suo assordante ronzio. Il seguito, ciascuno potrà sceneggiarlo da sé. La macchia potrà sparire, potrà ingrandirsi, potrà attaccare, potrà implodere o esplodere. Dipende da molte variabili. E dipende da ciascuno. Dallo sguardo, dall’immaginazione, dal modo in cui ognuno deciderà di vedere la macchia e se e come affrontarla.

Quel che è certo è che si tratta di una macchia “storica”. Che ciclicamente ritorna in ogni luogo. Porta con sé le solite appendici anti-umane e mai la sua forma è identica alle precedenti. Una macchia storica che torna ciclicamente e chiama. Cerca l’adunata reazionaria e contribuisce, quando va bene, alla creazione del suo opposto.

Non so come ciascuno deciderà di agire innanzi la macchia e, al momento, non vedo molti opposti ma confido, ancora, nell’insorgere. Nel collettivo risorgere.

Immagine: Contro, ityart

Let them be

Immagine: Profilo, ityart

Lasciate che seguano la
loro via,
che le stelle
fluttuino come fiocchi.

Let them flow
their own way
let the stars
float as flakes.

Lasciate che parlino,
danzino, urlino,
creino il flusso.
Il loro.

Lasciate che siano.

Let them speak,
dance and scream,
Let them make a flow.
Their own one.

Let them be.