Il momento in cui capiamo di rientrare in una definizione
è, a volte, il momento in cui realizziamo d’essere stati definiti
da altr* per ciò che una macro-struttura, apparentemente solo esterna e che si ripropone
nei tempi e in certe geografie, vuole che siamo.
E nel dirci cosa siamo, ci dice soprattutto cosa/chi non dobbiamo essere.
Cosa/chi è sbagliato essere.
Spesso, accettiamo l’imposizione senza domandarcene la ragione,
i perché, la correttezza. Senza chiederci “è davvero così?”.
Senza metterne in dubbio la fissità – “deve per forza essere così?”
Non possiamo – non c’è consapevolezza.
Non vogliamo – non c’è volontà.
Il momento in cui percepiamo la veste che ci viene imposta
come non adatta, a volte, è anche il momento in cui iniziamo
a vedere le imposizioni altre. I vestiti troppo stretti o
troppo larghi. Troppo stinti o senza colori.
La percezione e l’osservazione, però, sono solo un primo passo d’un processo uroborico.
Il secondo, la comprensione.
Il terzo, il sovvertimento…
Di sé, per iniziare.
Del resto, per continuare.
Il momento in cui realizziamo di essere tutt* parte di un sistema
escludente, ingiusto, prevaricante, oppressivo e colonizzante deve diventare
il momento in cui, il più possibile e non a volte, decidiamo di agire per cambiare
paradigmi, allargare le geografie e considerare ogni corpo come corpo
abitato, abitabile e resistente.
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Letture consigliate: “Decolonialità e privilegio” – Rachele Borghi
In foto: “The wind of revolution” (oli e acrilici su carta da imballaggio)