Di mongolfiere e migrazioni
“Una mongofiera leggera leggera, all’orizzonte, stagliava il suo profilo. Come colorata nube ergeva se stessa, lenta e fiera. Salutava i monti e le valli, la riva e le onde. All’orizzonte. Salutava. E valicava i monti, le valli, la rive e le onde. Come colorata nube, tingeva il cielo con nuove speranze.”
– Ity
Tutti temono le migrazioni. Magari non tutti, ma una buona parte. Temono il migrare ma non il viaggiare. Due termini simili ma con immaginari differenti. Il viaggiatore, spensierato quasi per definizione, migliora se stesso nel confronto con culture e luoghi altri. Il viaggiatore visita, arreca accrescimento economico. Dona valore, con la sua sola presenza di viaggiatore, alla meta del suo peregrinare.
Il pellegrino stesso ha positive accezioni. Il pellegrino che erra in cerca di luoghi intrisi di pathos e memoria. Il pellegrino che plana. Il pellegrino che compra e prega. Così anche il peregrinare come il viaggiare è salvato dall’onta.
Sorte funesta ha invece raggiunto il migrare. Eppure le rondini lo fanno con cadenza stagionale. E non solo loro. In natura è ordinaria amministrazione. Cosa nota. Cosa buona e giusta. Eppure. Tra alcuni animali di tipo bipede, il migrare assume toni spaventosi.
E, badate bene, le origini sono lontane. Il migrante, economico in primis, “ruba il pane, le donne e la patria”. La patria, le donne, il pane. Come se alla patria avessero diritto solo alcuni. Come se le donne fossero oggetto da ruberia (che lo siano state, che in certi luoghi lo siano ancora e che vengano trattate da oggetto di ruberia è di certo altro argomento da approfondire in separata sede). Come se il pane non fosse frutto d’una catena di produzione e a questo frutto che qui chiamiamo pane, ma potremmo anche denominare arancia, pomodoro o lavoro. Come se a questo pane, si diceva, non avessero diritto gli esseri viventi tutti.
E allora infuriano le polemiche, gli avvoltoi svolazzano, gli sciacalli smembrano, le pecore temono e i lupi, avvolti in ovini manti, attaccano sghignazzanti. E se fosse natura animalesca a richiederlo, per bisogni di sopravvivenza, potrebbe anche risultare comprensibile. Ma.
Qualcuno millanta ferino coraggio e, innanzi una toga con martello, da puro pavido mostra il vero volto. Ma. Eh, il “ma”. Il “ma” è importante. Tutti i “ma”, badate, lo sono. Perciò tali avvoltoi, sciacalli, pecore, lupi e pavide fiere che ad altra animalesca natura parrebbero appartenere – bipede, in particolare, e senza piumaggio – tali bipedi, insomma, espongono la loro pochezza e vuotezza in variabile modo.
E così, promesse e rimbalzi s’avvicendano, le confusioni aumentano e i corpi si ammassano. Perché alla fine di questo si parla. Di corpi, “pacchi” e numeri. Distanti e disumanizzati. “Loro” migrano, “loro” muoiono. Come se “noi” mai avessimo migrato, mai fossimo morti. Come se non lo facciamo ancora. Di migrare e morire. Come se “noi” e “loro”, in sostanza, non fossero eguali. Come se noi, tutti, non volessimo avere la fortuna di issarci come colorate nubi e viaggiare. Senza migrare. O senza, almeno, che il colpevolizzato migrare divenga etichetta, onta o pericoloso segnale.
- Per approfondimenti sul tema migratorio, si consiglia la lettura degli articoli di Annalisa Camilli (Internazionale.it)